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Album Reviews /

The Haxan Cloack Excavation

Excavation

Vibrazioni sinistre, gemiti spettrali e una presenza inquietante che batte violentemente sulla porta della stanza dove siamo rinchiusi alimentando le ansie claustrofobiche e la paura fino allo svenimento.
Inizia così, con “Consumed” questo disco, opera seconda di Bobby Krlic, inglese ventisettenne di origine est-europea il cui moniker è ispirato al mondo dell’aldilà, del magico (“haxan” in svedese significa strega) e letteralmente si traduce come “il mantello della strega”.

“Excavation”, suo secondo album, compie un viaggio profondo, “scava” negli incubi più oscuri, terrorifici e reconditi dell’animo umano, percorre un sentiero di riflessione e perdizione sulla condizione umana e il suo rapporto con l’esoterico per il quale evidentemente Krlic deve avere un grosso interesse.
L’album è pubblicato dalla newyorkese Triangle records, label che ha già messo alle stampe le interessanti sperimentazioni nel suono elettronico di artisti emergenti quali Holy Other, Vessel, Evian Christ, Balam Acab e oOoOO.

Proseguendo nell’ascolto del disco troviamo “Excavation part 1”: la sonorizzazione di un incubo in cui si alternano sequenze imprevedibili di flash sonori in bianco e nero, momenti di calma, vibrazioni intense e accenni melodici in dissolvenza, e ancora aliti di presenze demoniache che ci lanciano in una dimensione profonda e perduta in cui i battiti cavernosi entrano sottopelle per poi esplodere, sordi, violenti, caldi fino a portarci poi in una cascata elettrica che fa per qualche attimo da tappeto all’ingresso in scena di “Excavation part 2”: siamo usciti dal buco in cui eravamo stati scaraventati, siamo per un attimo all’aria aperta, soli, spaventati, la tensione ci avvolge e improvvisamente scorgiamo quella inquietante presenza che viene verso di noi, la sequenza sembra quella di un inseguimento scandito da colpi di basso di derivazione drum’n bass (scarnificato), ci illudiamo di essere salvi, ascoltiamo una distorta nenia femminile accompagnata da melodie horrorifiche e sferzate di luce bianca che attraversano il buio, ci fermiamo, possiamo respirare, il rumore sfuma, si allontana, forse siamo salvi.

“Mara” avanza con passo pesante tra campi sonori abitati da strani esseri e “Miste” è aperta da un urlo che si perde tra note gravi e colpi al basso ventre, strani rumori meccanici fanno da contraltare all’ imperante predominio dei bassi, un battito tra l’umano e il meccanico chiude il brano.

“The Mirror Reflecting part 1” si apre su scenari nebulosi, è il set di un film horror con rulli di tamburi accompagnati da vibrazioni oscure e reminiscenze alienanti che sembrano annunciare l’arrivo della scena chiave, ma imprevedibilmente ci ritroviamo in un’atmosfera di calma surreale che è il preludio del ritorno all’oscurità sinistra e vibrante di “The Mirror Reflecting part 2”: sequenze di loop cariche di ansia e umore nero si avvolgono in una danza che sa di macabro, i suoni sfumano e rimane il solo battito sordo, forte e inquieto che pian piano è ricoperto da una vibrazione violacea che diventa la base per l’incursione del violoncello e di melodie che caratterizzano con toni struggenti e melanconici il quadro.
“Dieu” è una perla nera di malinconia e potenza oscura, con i suoi archi dentro una grotta dalle pareti elettrificate, una danza di suoni a metà tra tribale e industriale, echi di esplosioni elettriche e vortici.

“The Drop”, in chiusura, è una marcia funerea di quasi 13 minuti che suggella l’uscita di scena del disco, la sigla di coda del film: i protagonisti sono droni, pad e synth intrisi di cosmicità che disegnano nel cielo buio un’aura di speranza dopo scene di terrore e ansia, una sorta di sinistra e oscura quiete in cui ricompaiono presto sprazzi di umori ascoltati nelle precedenti tracce che progressivamente si materializzano sotto forma di note e battiti inquieti come un ballo tribale sotto un temporale, e rubano la scena e bagnano di tensione e paura nera il terreno, fino a diventare soli protagonisti e riportarci in quel luogo oscuro e sperduto in cui siamo soli ad affrontare le nostre paure.

Il lavoro di produzione musicale di Krlic muove nella direzione di un sound scenico, cinematografico e di contesto; ne avevamo già avuto un assaggio col precedente album di debutto pubblicato da Aurora Borealis nel 2011, ma qui il risultato finale si eleva notevolmente dalla media.
I suoni rimandano superficialmente ai lavori di Demdike Stare e Raime, ma a mio avviso, si collocano un gradino sopra per emotività, energia, sensibilità e capacità di colpire l’ascoltatore: sembra che ogni nota sia studiata per entrare in circolo nelle vene e nei sensi di chi ascolta: paesaggi e scenari esoterici, l’aldilà e terrificanti incubi di morte e claustrofobie sono stati indagati e sonorizzati in maniera eccellente senza badare a soli fini estetici.
Un gran disco, da ascoltare di notte e con ottime cuffie, a occhi chiusi, lasciandosi trasportare per viverlo intensamente.
Mai qualcuno aveva interpretato scenari tanto freddi e funerei con tanto calore e profondità, mi inchino al risultato.