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Heroin In Tahiti Sun And Violence

Heroin In Tahiti

Un profluvio tra prove ed errori che brillano di luce propria. “Sun And Violence” (2015), un mastodontico album tra etnologia e musicologia, il contenitore degli ultimi esperimenti in ordine di tempo. Gli Heroin In Tahiti non sono musicisti a tutto tondo, ma semplici appassionati di sonorizzazioni. La loro arte, in continuo divenire, è in grado di incantare come poche, sia se ascoltata nella sua più espansa e avvolgente dimensione live che se apprezzata su differente supporto in un più comodo contesto casalingo.

Quando fulgide intenzioni creative fanno i conti con un ricco background, così come con i reali mezzi a disposizione, il risultato finale può sorprendere. Sin dalle sue prime note, “Sun And Violence”, rilasciato per conto di Boring Machines, si pone in linea con i passati fasti del duo, degno successore del precedente “Death Surf” (2012) e degli altrettanto validi lavori ‘minori’, quali lo split “No Highway/Black Vacation” (2013) con Ensemble Economique, il 7” “Peplum” (2014) e la cassetta “Canicola” (2014).

Psichedelia e occulto, chitarra e drone. Temi e strumenti per un doppio connubio eclettico alla base di viaggi insoliti e non necessariamente polinesiani come il nome scelto da Valerio Mattioli e Francesco de Figuereido, Heroin In Tahiti, con un occhio fisso alle immagini di un cinema bianco, rosso e verde. Se l’attrazione per le pellicole di alcune decadi fa è una delle loro principali ispirazioni, il loro suono si pone al centro di un piccolo ma riuscito tentativo di riconquista di un’identità musicale forse sopita.

Library music e colonne sonore, rock progressivo e sperimentazioni. Questi i punti di riferimento degli Heroin In Tahiti, devoti all’improvvisazione libera, propria ad esempio di una florida scena romana, capeggiata dal Gruppo Di Improvvisazione Nuova Consonanza, al cui interno figuravano compositori del calibro di Franco Evangelisti, Egisto Macchi e, soprattutto, il maestro Ennio Morricone, il più noto artefice dello ‘spaghetti sound’, un nomignolo improprio, oltremodo riduttivo della sua visionarietà.

Valerio Mattioli e Francesco de Figuereido i continuatori di uno zeitgeist soppresso dall’esterofilia degli “anni di plastica”, gli ingloriosi Ottanta, così definiti da un altro padre della sperimentazione tricolore, Lino Capra Vaccina, di recente ‘riscoperto’ dai più mediante la ristampa del suo capolavoro, “Antico Adagio” (2015). Da ‘spaghetti sound’ a ‘spaghetti wasteland’, il passo non è stato breve, ma notevole è il modo in cui il duo ha tratteggiato in note terre riarse e sterpaglie da macchia mediterranea.

“Sun And Violence” è stato registrato a Roma nel biennio che va dal 2012 al 2014, arricchito dai sample vocali di Alan Lomax e Diego Carpitella risalenti alla metà degli anni Cinquanta e masterizzato da Polysick. L’album mette in scena tribalismi dagli echi distanti, spesso manifestatesi ai raggi dell’astro che dà la vita. Ne deriva un altalenante flusso di coscienza creativo e di violento impatto, dal sapore retrò, folk e disseminato di alcuni momenti di raccoglimento alieni, psichedelici, o latenti nei corpi.

Nonostante il lento incedere, presto reso autentico crescendo, l’opener Salting Carthago è travolgente non solo sul piano mentale. Con i suoi canti arcaici sintetizza sul lato A l’essenza primigenia del concept prima di una vivace esplosione di colore con assoli twang: la tarantella di 500 Cells. L’interludio Absit Omen cita, invece, particelle estratte dal repertorio Goblin. Sul lato B, Black Market raccoglie la polverosa, forse pesante, eredità del classico western sound e la distorce nell’arco di cinque minuti.

Segue Wireless Telegraphy Mirage, la giusta parentesi riflessiva e altrettanto cinematica. Il cerimoniale coristico di Zatlath Aithas e la scarna progressione intimista di Spinalonga costituiscono il preludio al sopraggiungere dell’ ‘uomo che cammina sui teschi come una bestia sulla terra’. Sul lato C, Arena 2 è concitata, intensa, una continua altalena di deformi suoni, mentre la quasi interminabile Continuous Movement si pone come l’affresco sonoro per un documentario mai realizzato in lande esotiche.

Perfetta la sincronia con la pioggia rinfrescante di Elba, un’apertura dai toni balearici sul lato D. Quiete prima della chiusura inquieta e tragica, scandita da un iniziale urlo. Il contorto raga di Superdavoli, lo shuffle funk di Costa Concordia, loop in slow motion e languido disincanto. L’ultima ed evocativa danza al tramonto eseguita da un duo eclettico, mai sazio della propria ricerca su più fronti. O l’ultimo saluto al nostro vecchio tempo, estratto con delicatezza e gusto da un vaso di Pandora non alla portata di tutti.