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Pleq and Giulio Aldinucci The Prelude To

Pleq and Giulio Aldinucci - The Prelude To

L’attesa aumenta il desiderio. Anche in note. Pleq e Giulio Aldinucci provano a dilatarla ulteriormente in “The Prelude To” (2015), per una collaborazione ai confini del mondo. L’etichetta australiana The Long Story Recording Company, nata da una costola della rodata Twice Removed, ha infatti ricomposto la ‘strana coppia’ dodici mesi dopo la sua prima struggente apparizione.

L’artista polacco, tra le menti dell’etichetta Dronarivm, e quello toscano, già autore degli ottimi “Aer” (2014) e “Spazio Sacro” (2015), avevano unito le forze per la futura title-track, The Prelude To, apparsa nella monumentale compilation “Elements I-V” (2014): cinque cd che raccolgono il meglio dai nomi del catalogo della nipponica Home Normal, label guidata dal saggio Ian Hawgood.

L’intesa tra Pleq, all’anagrafe Bartosz Dziadosz, e Giulio Aldinucci non si è, però, esaurita qui e una manciata di nuove idee è divenuta presto musica. Nonostante la breve durata, l’album dal vago titolo, forse preludio a una successiva e più corposa release in tandem, si contraddistingue per un’equilibrata sequenza di bordoni mediata dal contrappunto di altri elementi sonori affatto invasivi.

L’astrattismo a servizio delle emozioni del duo si compone di inserti downtempo e glitch, alternando l’uso di field recordings a un malinconico ricorso a strumenti tradizionali. Il risultato che ne deriva è un succinto amalgama dai contorni difficili da tratteggiare che introietta, o ricombina, i migliori frammenti sonici già propri di ambient, minimalismo, musica classica e sperimentale.

Grilli di notte, parole sussurrate e violini mai stridenti. L’opener, ai limiti del cinematografico, The Prelude To introduce con delicatezza un lavoro ben ponderato, solido e coinvolgente. L’essenzialità del pianoforte e il rumore dei tuoni in lontananza, o gli echi di due attitudini, una romantica nel profondo e l’altra improntata alla contemporaneità elettronica, confluiscono in un tutt’uno. Etereo.

Non abbiamo voluto seguire uno schema fisso di lavoro ed ogni composizione è nata da un approccio differente. Ad esempio, in The Prelude To tutto è partito da un mio brano composto da molte tracce che Pleq ha decostruito con un tocco molto simile ai pezzi dei suoi The Frozen Vaults, includendo proprio il contributo del violinista del gruppo, Tomasz Mreńca.

Se, a prima vista, un fiocco di neve appare fragile, più di uno possono divenire poco a poco parte dell’infuriare della tempesta. Il crescendo atmosferico di The Joy Of Loneliness sembra riprodurre l’incedere del freddo durante una scalata verso una misteriosa e già bianca vetta. O il raggiungimento di un benessere extra-corporeo al culmine di un processo di meditazione.

The Joy of Loneliness è nata, invece, da un frammento di loop, parte di una sessione di “Spazio Sacro”, che Bartosz Dziadosz ha dilatato espandendo al massimo il materiale di partenza. In Middle Point ho composto il pezzo basandomi su brevi sample realizzati dal mio collega, trattandoli come se fossero audio provenienti dal mio archivio e di cui avevo dimenticato l’esistenza.

A una palese dimostrazione di potenza è contrapposta una parentesi tenue, per un ascolto timido: Resting On Intensity rappresenta un’ulteriore declinazione di un sogno ai confini del beatless. I suoni distorti e le voci mai identificabili del non-luogo Middle Point si configurano, poi, come la parte più introspettiva dell’opera. Tre remix di qualità costituiscono, invece, quella ‘alternativa’.

La rielaborazione dei brani è stata rispettivamente affidata a The Green Kingdom, Christopher Bissonnette e Olan Mill. Il primo remix, firmato da Michael Cottone per The Prelude To, è segnato dallo scorrere delle dissonanze del tempo, una sorta di ticchettio in sottofondo che ne restituisce un’impropria rapidità d’impatto. Il secondo, per Resting On Intensity, incupisce e satura la traccia.

Il terzo, per The Joy Of Loneliness, vede infine Alex Smalley destreggiarsi in addizioni di gravità e inversioni di calore. Tali esperimenti distendono o enfatizzano alcuni dettagli delle composizioni originali che, senza essere particolarmente stravolte dalle altrui mani, conservano quasi intatto sia il loro cuore pulsante che il loro fascino. Superbo esempio di una riuscita condivisione di intenti.